Verbalia | Non-cose

Verbalia | Non-cose

Tutto è smart, in cloud, on demand. Anche il nostro tempo libero deve essere documentato, valorizzato, portato nel mondo con una story. Tra notifiche e KPI, siamo tanto occupati a interagire con i segni digitali, da mettere spesso in secondo piano il significato dell’esperienza di qualcosa che pesa, resiste, dura.

Il concetto di non-cose (Nicht-Dinge) è proposto e indagato dal filosofo e saggista Byung-Chul Han, autore sudcoreano, noto per la sua critica alla società contemporanea. Ne parla nel suo libro Le non-cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (2021).

Senza peso

Le non-cose sono entità immateriali, informazionali, che hanno preso il posto delle cose reali e tangibili nella realtà dominata dal digitale. Non hanno peso, non occupano spazio, non resistono. Sono

  • le notifiche sullo smartphone
  • i like sui social
  • le criptovalute
  • le notizie online

Iperrealtà

Non sono oggetti, quindi, ma segni, dati, eventi informazionali. Quando Jean Baudrillard analizzava la società dei media e dei segni – in cui la realtà viene sostituita dalla simulazione – definiva simulacro un’immagine che non rimanda più a nulla di reale, ma solo ad altri segni. Baudrillard parlava di iperrealtà, dove il vero e il falso sono indistinguibili, e dove la realtà è stata rimpiazzata da rappresentazioni. Le non-cose di Han sono eredi dirette di questa analisi: sono simboli senza corpo, dati senza presenza, che riempiono la nostra vita ma non ci connettono al mondo, ma solo a un flusso.

Informazione disponibile

Già Heidegger rifletteva sul rapporto tra uomo, oggetti e mondo, distingueva tra l’oggetto disponibile  – funzionale, tecnico, a portata di mano – e la cosa autentica, che ha una presenza che ci interpella, ci radica nel mondo. La tecnica moderna – argomentava Heideggertrasforma tutto in un fondo disponibile: cose, natura, persone diventano risorse da usare. Han riprende questa idea: nel mondo digitale, tutto si trasforma in informazione disponibile. Le non-cose sono il compimento di quella riduzione heideggeriana: non hanno più materialità, sono pura funzione e segnale.

Presenza ontologica

Che ne è delle cose concrete, allora? Per Han, le cose vere sono gli oggetti che durano, che si lasciano abitare, che costruiscono relazioni significative nel tempo. Un libro letto e sottolineato. Una tazza di ceramica fatta a mano. Un tavolo di legno usato da generazioni. Le cose hanno una presenza ontologica, resistono all’oblio. Ci radicano nel mondo. 


Viviamo in un’epoca in cui tutto si fa informazione, comunicazione, rappresentazione.

Eppure, le non-cose prendono il dominio della nostra attenzione. Sono volatili, istantanee, spesso effimere, ma assorbono costantemente la nostra attenzione. Se l’esperienza del mondo è filtrata dagli schermi:

  • perdiamo il contatto con la materia, con la durata, con la memoria incarnata
  • le esperienze diventano consumi digitali, non più vissuti sensoriali

 

Le non-cose generano, quindi, una valanga continua di stimoli, un sovraccarico informativo, con alcune conseguenze psicologiche e antropologiche. La soggettività diviene instabile, l’identità dell’individuo si frammenta, diventando profilo o immagine per gli altri, non più presenza reale. Siamo esposti e continuamente presenti, ma non sempre davvero presenti a noi stessi. Nel mondo delle non-cose, poi, non c’è attesa e non c’è durata. Tutto è immediato. Questo indebolisce la temporalità profonda dell’esistenza umana, fatta di attese, silenzi, maturazione.

Non-cose at work

Che impatto hanno le non-cose sul mondo professionale contemporaneo? Sempre più dematerializzato e intermediato da informazioni digitali, il nostro spazio di lavoro è uno spazio informazionale, più che fisico:

  • e-mail, notifiche, dashboard, tool di project management
  • KPI, algoritmi, dati di performance
  • identità professionale digitale (LinkedIn, portfolio online, reputazione web)
  • call, meeting virtuali, messaggi istantanei
  • documenti in cloud, file collaborativi, processi automatizzati

 

Siamo d’accordo, ci sono alcuni vantaggi: informazioni, documenti, strumenti e persone diventano più veloci e accessibili ovunque e subito, favorendo la flessibilità organizzativa e l’efficienza operativa. Le non-cose, inoltre, sono leggere e replicabili, quindi, gestibili e facilmente archiviabili. Nuove forme di collaborazione si sviluppano: lavoro in team asincrono su piattaforme digitali condivise; analisi e monitoraggio costante dei dati per valutazioni oggettive e strategie data-driven. Tutto molto interessante.

Eppure

Così condotto, il lavoro può ridursi a mera interazione con simboli – numeri, dati, processi – generando una sensazione di astrazione e di distacco dal reale. L’iperconnessione può causare, inoltre, una condizione di lavoro senza fine, senza spazio di separazione dal proprio tempo personale. Quando non ci rendiamo conto di usare le non-cose come se fossero reali, accade inevitabilmente qualcosa sul piano personale, sociale e professionale: perdiamo il senso della differenza tra ciò che è esperito e ciò che è solo rappresentato; viviamo immersi in una realtà filtrata, dominata da segni e simboli, e rischiamo di scambiare l’informazione per conoscenza. 

Vuoto esperienziale

In questo vuoto esperienziale accediamo a surrogati di esperienze, perché si riduce la possibilità di abitare il mondo insieme agli altri e di costruire realtà condivise fatte di luoghi, tempi, memorie comuni. Il risultato può essere l’isolamento, l’individualismo, e la frammentazione del tessuto sociale e organizzativo.

Il punto, però, non è rifiutare il digitale. Ma cercare strategie per riequilibrare le non-cose con esperienze personali e professionali che portino il segno della concretezza e dell’umanità. Prima di tutto, è utile

  • prendere coscienza del predominio delle non-cose
  • recuperare il valore delle cose, dell’esperienza concreta, silenziosa, duratura

 

Affrontare le non-cose nella formazione professionale può assumere, quindi, un rilievo strategico, critico e trasformativo. Alcune linee di intervento formativo possibili?

  • acquisire consapevolezza digitale | coltivare una capacità critica nell’interpretare ciò che è informazione rispetto a ciò che è esperienza reale; sviluppare la competenza di discernere tra ciò che appare significativo (es. una metrica) e ciò che lo è effettivamente (es. l’impatto sull’etica, sul benessere o sulla sostenibilità dell’azione)

  • rivalutare la dimensione relazionale del lavoro | contrastare la tendenza alla disincarnazione dei rapporti professionali, promuovendo competenze di ascolto attivo, cooperazione autentica e dialogo in presenza; valorizzare la relazione come spazio generativo e trasformativo

  • ristabilire un rapporto sano con il tempo e l’attenzione | facilitare l’acquisizione di strumenti per una gestione consapevole del tempo e della concentrazione; introdurre pratiche formative che favoriscano la lentezza, la riflessione e le pause come elementi costruttivi del processo di apprendimento

  • promuovere un senso del lavoro più radicato e sostenibile | ricostruire una connessione significativa tra l’azione professionale e i suoi valori fondanti; incoraggiare una cultura del lavoro centrata sulla presenza, la cura e la responsabilità concreta

Parole vive, parole vuote

Da blogger e verbaliante quale sono, la mia proposta formativa andrebbe ancora e sempre sulle parole. Obiettivo: decostruire il linguaggio aziendale per ritrovare autenticità e senso. Nei contesti organizzativi, il linguaggio partecipa alla costruzione della cultura aziendale, alla trasmissione dei valori e all’efficacia della comunicazione interna. Tuttavia, è sempre più frequente l’uso di espressioni stereotipate, ripetitive, formule preconfezionate in rigoroso aziendalese che – pur suonando professionale – spesso svuota di senso i contenuti e ostacola una comunicazione autentica. Proporre un’esperienza formativa critica e al tempo stesso creativa, potrebbe guidare le persone a

  • riconoscere le parole vuote | identificare formule linguistiche abusate o prive di reale contenuto

  • riscoprire le parole vive | esplorare e valorizzare un linguaggio più concreto, aderente all’esperienza reale, capace di evocare significato, responsabilità e presenza

  • sviluppare un pensiero critico sul linguaggio organizzativo | riflettere su come il linguaggio contribuisca a costruire – o distorcere – la realtà lavorativa, le relazioni professionali e la cultura aziendale

  • allenare la comunicazione consapevole | attraverso esercizi pratici, giochi linguistici e momenti di confronto, favorire una maggiore consapevolezza nell’uso delle parole, sviluppando uno stile comunicativo più autentico, efficace e generativo

D’altra parte, per massimizzare la sinergia e ottimizzare il mindset, bisogna essere un po’ disruptive 😉

Alessia De Carli
adecarli@incontatto.it