
15 Ott Verbalia | Non-cose
Tutto è smart, in cloud, on demand. Anche il nostro tempo libero deve essere documentato, valorizzato, portato nel mondo con una story. Tra notifiche e KPI, siamo tanto occupati a interagire con i segni digitali, da mettere spesso in secondo piano il significato dell’esperienza di qualcosa che pesa, resiste, dura.
Il concetto di non-cose (Nicht-Dinge) è proposto e indagato dal filosofo e saggista Byung-Chul Han, autore sudcoreano, noto per la sua critica alla società contemporanea. Ne parla nel suo libro Le non-cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (2021).
Senza peso
Le non-cose sono entità immateriali, informazionali, che hanno preso il posto delle cose reali e tangibili nella realtà dominata dal digitale. Non hanno peso, non occupano spazio, non resistono. Sono
- le notifiche sullo smartphone
- i like sui social
- le criptovalute
- le notizie online
- …
Iperrealtà
Non sono oggetti, quindi, ma segni, dati, eventi informazionali. Quando Jean Baudrillard analizzava la società dei media e dei segni – in cui la realtà viene sostituita dalla simulazione – definiva simulacro un’immagine che non rimanda più a nulla di reale, ma solo ad altri segni. Baudrillard parlava di iperrealtà, dove il vero e il falso sono indistinguibili, e dove la realtà è stata rimpiazzata da rappresentazioni. Le non-cose di Han sono eredi dirette di questa analisi: sono simboli senza corpo, dati senza presenza, che riempiono la nostra vita ma non ci connettono al mondo, ma solo a un flusso.
Informazione disponibile
Già Heidegger rifletteva sul rapporto tra uomo, oggetti e mondo, distingueva tra l’oggetto disponibile – funzionale, tecnico, a portata di mano – e la cosa autentica, che ha una presenza che ci interpella, ci radica nel mondo. La tecnica moderna – argomentava Heidegger – trasforma tutto in un fondo disponibile: cose, natura, persone diventano risorse da usare. Han riprende questa idea: nel mondo digitale, tutto si trasforma in informazione disponibile. Le non-cose sono il compimento di quella riduzione heideggeriana: non hanno più materialità, sono pura funzione e segnale.
Presenza ontologica
Che ne è delle cose concrete, allora? Per Han, le cose vere sono gli oggetti che durano, che si lasciano abitare, che costruiscono relazioni significative nel tempo. Un libro letto e sottolineato. Una tazza di ceramica fatta a mano. Un tavolo di legno usato da generazioni. Le cose hanno una presenza ontologica, resistono all’oblio. Ci radicano nel mondo.
Viviamo in un’epoca in cui tutto si fa informazione, comunicazione, rappresentazione.
Eppure, le non-cose prendono il dominio della nostra attenzione. Sono volatili, istantanee, spesso effimere, ma assorbono costantemente la nostra attenzione. Se l’esperienza del mondo è filtrata dagli schermi:
- perdiamo il contatto con la materia, con la durata, con la memoria incarnata
- le esperienze diventano consumi digitali, non più vissuti sensoriali
Le non-cose generano, quindi, una valanga continua di stimoli, un sovraccarico informativo, con alcune conseguenze psicologiche e antropologiche. La soggettività diviene instabile, l’identità dell’individuo si frammenta, diventando profilo o immagine per gli altri, non più presenza reale. Siamo esposti e continuamente presenti, ma non sempre davvero presenti a noi stessi. Nel mondo delle non-cose, poi, non c’è attesa e non c’è durata. Tutto è immediato. Questo indebolisce la temporalità profonda dell’esistenza umana, fatta di attese, silenzi, maturazione.
Non-cose at work
Che impatto hanno le non-cose sul mondo professionale contemporaneo? Sempre più dematerializzato e intermediato da informazioni digitali, il nostro spazio di lavoro è uno spazio informazionale, più che fisico:
- e-mail, notifiche, dashboard, tool di project management
- KPI, algoritmi, dati di performance
- identità professionale digitale (LinkedIn, portfolio online, reputazione web)
- call, meeting virtuali, messaggi istantanei
- documenti in cloud, file collaborativi, processi automatizzati
Siamo d’accordo, ci sono alcuni vantaggi: informazioni, documenti, strumenti e persone diventano più veloci e accessibili ovunque e subito, favorendo la flessibilità organizzativa e l’efficienza operativa. Le non-cose, inoltre, sono leggere e replicabili, quindi, gestibili e facilmente archiviabili. Nuove forme di collaborazione si sviluppano: lavoro in team asincrono su piattaforme digitali condivise; analisi e monitoraggio costante dei dati per valutazioni oggettive e strategie data-driven. Tutto molto interessante.
Eppure
Così condotto, il lavoro può ridursi a mera interazione con simboli – numeri, dati, processi – generando una sensazione di astrazione e di distacco dal reale. L’iperconnessione può causare, inoltre, una condizione di lavoro senza fine, senza spazio di separazione dal proprio tempo personale. Quando non ci rendiamo conto di usare le non-cose come se fossero reali, accade inevitabilmente qualcosa sul piano personale, sociale e professionale: perdiamo il senso della differenza tra ciò che è esperito e ciò che è solo rappresentato; viviamo immersi in una realtà filtrata, dominata da segni e simboli, e rischiamo di scambiare l’informazione per conoscenza.
Vuoto esperienziale
In questo vuoto esperienziale accediamo a surrogati di esperienze, perché si riduce la possibilità di abitare il mondo insieme agli altri e di costruire realtà condivise fatte di luoghi, tempi, memorie comuni. Il risultato può essere l’isolamento, l’individualismo, e la frammentazione del tessuto sociale e organizzativo.
Il punto, però, non è rifiutare il digitale. Ma cercare strategie per riequilibrare le non-cose con esperienze personali e professionali che portino il segno della concretezza e dell’umanità. Prima di tutto, è utile
- prendere coscienza del predominio delle non-cose
- recuperare il valore delle cose, dell’esperienza concreta, silenziosa, duratura
Affrontare le non-cose nella formazione professionale può assumere, quindi, un rilievo strategico, critico e trasformativo. Alcune linee di intervento formativo possibili?