L’Effetto Droste

Mio padre amava ascoltare musica dai suoi vinili. Ne adagiava uno sul piatto giradischi Thorens e con straordinaria leggerezza, lasciava che la testina scivolasse sulla traccia più esterna, senza fare alcun fruscìo. Custodiva la sua collezione di dischi gelosamente, in un mobile troppo alto per me, bambina curiosa costretta a salire su una sedia per arrivare a sbirciarne le misteriose e meravigliose copertine. Tra le tante, una mi sorprendeva ogni volta che ne conquistavo la presa: Ummagamma dei Pink Floyd. Un quadro dentro al quadro dentro al quadro dentro al quadro e… via così… (forse – pensavo – all’infinito?). Mi sentivo attirata dentro quell’immagine, come Alice dentro lo specchio. 

La ricorsività di un’immagine che contiene se stessa in modo indefinito, è chiamata effetto Droste, dal nome del marchio olandese, che usò tale gioco d’icone per pubblicizzare il suo cacao. Quando ho iniziato a studiare la mente, il cervello ed il pensiero, inevitabilmente la copertina di Ummagamma, più esattamente il suo effetto Droste è diventato per me una metafora.

La storia inizia così.

Modelli della mente, modelli del cervello

Il nostro cervello è un bravo economo: quando acquisisce informazioni sull’ambiente attraverso i sensi, è in grado di ignorarne la maggior parte, evocando quadri di riferimento o frames già operativi, precablati, si potrebbe dire. Tali strutture o mappe, i modelli neurali, determinano i nostri pensieri, e sono a loro volta il risultato di complessi meccanismi di rinforzo e selezione di sinapsi, derivanti dall’esperienza e dall’esercizio. A mano a mano che conosciamo il mondo esterno, i nostri mondi interni (i modelli mentali, appunto), cambiano, si arricchiscono, si trasformano. Ogni volta che il nostro cervello riceve segnali relativi ad una nuova esperienza, li associa al modello mentale più simile, mediante un processo di categorizzazione. E così trova una via sempre più veloce ed economica attraverso la quale attribuire significato al mondo esterno.

L’elefante volante

I progressi neuroscientifici nell’ambito del neuroimaging sembrano suggerire, che simili processi cerebrali possano produrre configurazioni isomorfe rispetto agli oggetti del pensiero. In altre parole, si pensa possa esserci a livello corticale una corrispondenza inequivocabile tra la mappa cerebrale e la cosa che rappresentata (forma, colore, suono o movimento). Sto pensando ad un elefante volante? Allora si dovrebbe attivare sulla corteccia una mappa costituita più o meno dalle stesse linee e punti, che uniti producono l’immagine di un elefante volante. Sembra bizzarro, ma l’analisi multivariata dimostra che vi sono specifiche configurazioni di attività cerebrale associate a determinati oggetti del pensiero, siano essi concreti o astratti. (O assurdi! 😉 ).

Gli studi suggeriscono che sia la genetica a decidere la struttura portante, cioè le caratteristiche del nostro sistema nervoso. I nostri modelli mentali, però, sono anche fortemente plasmati dall’educazione che riceviamo: la formazione, l’addestramento (training), l’influenza di mentori, genitori ed amici, i libri che leggiamo. Tutti questi fattori condizionano e modificano i nostri modelli, le nostre mappe, quindi i nostri atteggiamenti mentali.

Modelli buoni, modelli cattivi

I modelli sono quindi sempre utili? In questa storia, troverete almeno due risposte.

I modelli rappresentano – in parole semplici – il nostro modo di guardare il mondo. Sono vere e proprie mappe che orientano ed influenzano ogni aspetto della nostra vita personale e professionale. Partecipano al processo decisionale, all’apprendimento organizzativo ed al processo creativo. Aumentano o limitano le nostre potenzialità di azione. Rappresentano limiti o opportunità. Quindi sì, i modelli sono utili. Ma non sempre.

E’ proprio a questo punto che ritorna l’effetto Droste. Guardando la gif animata in alto, possiamo vedere che il punto di vista dell’osservatore è sempre lo stesso. Sì, il soggetto subisce piccole variazioni, ma l’angolatura resta identica. E a noi sembra di entrare in un loop percettivo. Ogni volta che attingiamo al nostro portfolio di modelli mentali, è probabile che sceglieremo il modello più accessibile, lo script (o copione) che conosciamo meglio. Il rischio è di non ammettere nuovi elementi percettivi, che potrebbero modificare frames diventati ormai obsoleti o semplicemente poveri di informazioni rispetto alle nuove esigenze che dobbiamo fronteggiare.

Che cosa possiamo fare, quindi?

Allontanarci dal quadro, girare intorno al quadro, guardare dietro ed oltre il quadro. Aggiornare così il modello o i modelli, fare un refresh della mappa (in modo simile ad un aggiornamento dell’App che avete installato sullo smartphone 🙂 ). Se siamo coraggiosi, osiamo essere creativi: smontiamo il quadro e rimontiamolo, aggiungendo, togliendo, scambiando parti… Fare bricolage con i nostri pensieri può generare un nuovo modello, integrato rispetto al precedente, più dinamico e ricco, probabilmente più efficace nel fronteggiare la mutevole realtà quotidiana.

E ora datemi il camice da coach 🙂

Quante volte avete sentito parlare di zona di comfort? In genere, quando la vita ci chiama a trovare soluzioni, siamo soliti utilizzare strategie già testate. Come si dice: squadra che vince, non si cambia, no? Ecco, se posso permettermi: a volte, non basta. Ed è allora che noi entriamo in crisi. Quando vecchie soluzioni non sono più efficaci, è davvero il momento di cambiare schieramento in campo e schema di gioco. Usciamo quindi dalla zona di comfort, anche se nel frattempo l’abbiamo arredata con coloratissmi mobili Ikea, e andiamo a vedere che cosa c’è fuori. Gli eventi ci costringono a volte ad uscirne, magari in modo brusco, quando non doloroso. Ma possiamo allenarci anche in situazioni non necessariamente problematiche o estreme. I nostri modelli mentali sono attivi sempre, ogni giorno in cui entriamo nel nostro ufficio, nelle nostre case o nelle nostre palestre. Ogni piccolo disagio può suggerirci che abbiamo bisogno di fare un piccolo esercizio: assumere la terza posizione, osservare la situazione come uno spettatore esterno e ampliare lo scenario.

Uscire, insomma, dall’effetto Droste.

Mio padre era disposto a giurare sulla sua Eko 12 corde, che non ci fosse qualità più alta della musica ascoltata da un vinile lasciato girare su una piastra Thorens. Poi arrivò il CD. E lui comprò un lettore Sony.

Il resto della storia – a questo punto – scrivetelo voi 😀

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